L’orientamento eterosessuale è sicuramente il più frequente, corrisponde all’attrazione per persone di sesso diverso dal proprio e segue una finalità biologica: la sopravvivenza della specie attraverso la riproduzione. Tuttavia, non è l’unico: a partire dall’adolescenza, molte persone si sentono attratte a livello emotivo, fisico e sessuale da individui del medesimo sesso.
Si tratta di una realtà multiforme, al pari dell’eterosessualità: è una condizione esistenziale con contenuti di affettività, progettualità e di relazione. Malgrado ciò, per molto tempo è stata considerata come una malattia o una forma di perversione: negli anni ‘60 la ricerca di una sua ipotetica determinazione genetica ha avuto molto vigore, ma non ha portato ad alcun risultato che avvalorasse tale tesi. Solo la psichiatria, verso la metà degli anni ’70, ha finalmente escluso le cause biologiche ed ormonali, finché, nell’ultima edizione del “Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali” (DSM-IV), oggi l’omosessualità non occupa più alcuna casella diagnostica. Tuttavia, l’omosessualità è ancora spesso circondata da un generale atteggiamento discriminatorio e pregiudizievole di rifiuto e di condanna, quando non di vera e propria patologizzazione.
Radicato nella coscienza di genitori, insegnanti, medici e sacerdoti, figure di riferimento molto importanti, il soggetto omosessuale molte volte è afflitto da grandi sensi di colpa: la sua autostima diviene minima e cerca di allontanare i propri sentimento per paura di essere rifiutato dalla famiglia e dalla società, con ripercussioni psicologiche talvolta rilevanti.
Nel corso dei secoli, cultura e società hanno determinato una rigida separazione di ciò è da considerarsi “maschile” o “femminile: giochi, colori, vestiti, capelli, comportamenti e ruoli sessuali.
L’omosessuale maschio ha quindi dovuto convivere con emozioni e stili di vita che la società generalmente connota come femminili, e viceversa. Ancor oggi le discriminazioni e i pregiudizi contro gli omossessuali dipingono queste persone (specie gli uomini) come tendenti alla promiscuità. L’inchiesta Arcigay/Ispes, condotta nel ‘98, dimostra invece il contrario: il 90% degli omosessuali considerava il rapporto di coppia come la migliore forma di relazione, il 41,5% al momento della ricerca ne viveva una, e solo il 15,1% degli intervistati aveva vissuto esperienze sessuali esclusivamente occasionali.
Per quel che concerne l’omosessualità femminile, sono stati identificati tre differenti tipologie comportamentali: alcune donne, per scelta ideologica, riducono al minimo le relazioni con uomini o con donne eterosessuali, impegnandosi anche politicamente contro una società patriarcale e maschilista; altre assumono caratteristiche prettamente mascoline e cercano di sminuire la propria femminilità nel comportamento come nel vestire; infine, ci sono le donne che, pur essendo omosessuali, valorizzano il proprio aspetto e si comportano esattamente come ogni altra donna.
Una ricerca americana sull’identità della donna omosessuale, ha rivelato che il 90% delle 323 intervistate aveva avuto anche esperienze eterosessuali: il 43% anche dopo essersi dichiarata lesbica. Emerge anche che, rispetto agli uomini omosessuali, le lesbiche sono decisamente più gelose. Un’altra differenza è l’istinto materno ed il desiderio di avere un figlio, che porta molte lesbiche a ricorrere all’inseminazione artificiale, all’adozione o all’affidamento: negli Stati Uniti 1/3 di esse è madre. Solo le lesbiche definite “separatiste” (quelle appartenenti alla prima tipologia comportamentale) ritengono la maternità, la gravidanza, il parto e l’allattamento come atti prettamente eterosessuali, ed il solo fatto di accogliere spermatozoi maschili nel proprio corpo genera in loro una sensazione di disgusto.